Lo studio dell'Università di Bristol e della Scuola di Giornalismo dell'Univesità di Cardiff (via) merita sicuramente delle riflessioni.
Prima, però, credo sia opportuno riportare la definizione di alcuni parametri utilizzati per valutare i 2,5 milioni di articoli di circa 500 fonti diverse di informazione online (USA e UK): (1) Leggibilità e Soggettività viste come due proprietà dello stile di scrittura e (2) popolarità intesa come la probabilità per un articolo di diventare popolare, dato l'argomento. Quest'ultimo parametro è stato misurato attraverso il monitoraggio delle notizie distribuite dalle testate attraverso il feed "Most Popular" presente nei siti.
I risultati delle ricerca, come già evidenziato da PierLuca Santoro su EJO,
sono davvero interessanti: dati alla mano (Figura 3 e Figura 5), sembra
che gli articoli popolari siano caratterizzati da maggiore leggibilità e
maggiore soggettività. Una tendenza, questa, che, secondo gli autori,
da un lato darebbe maggior credito ai teorici dell'"infotainment" e,
dall'altro, dimostrerebbe una elevata appetibilità delle soft news e
l'essere deterrente dello stile linguistico riservato alle hard news. Dati che non sconvolgono nessuno, direi.
Di elevato interesse, a mio parere, l'analisi fatta con specifico riferimento alle testate. Il grafico di Figura 6, che mostra il raggruppamento delle testate in base agli argomenti trattati, rende, al WSJ, la sua evidente natura di fenomeno di nicchia (cerchiata in azzurro) almeno rispetto alle altre testate oggetto di verifica. L'analisi degli stili linguistici di Figura 7 dice, inoltre, che il WSJ si pone al livello più basso per soggettività (gli argomenti vengono trattati asetticamente).
Sempre nella Figura 6, possono essere evidenziate almeno altre due nicchie (cerchiate in rosso e verde). Con un confronto con la Figura 7 si può dire che la prima, con The Sun e Daily Mirror in testa, si distingue per una elevatissima soggettività e leggibilità; la seconda, con il Washington Post, si mostra, invece, decisamente più centrata.
Considerando che la ricerca è ristretta a USA e UK e che il periodo di osservazione è Gennaio-Ottobre 2010 (in due anni gli stili linguistici - e non solo quelli - potrebbero essersi evoluti, o anche involuti!), giungere a conclusioni generali è davvero molto complicato. Qualcosa però, a buon senso, credo la si possa dire.
Se si intende fare di quella Editoriale un'Impresa pura (cioè un Content MarketPlace), la strada è duplice: o si segue la propria nicchia (come fa, con successo, il WSJ) oppure si prosegue con l'"infotainment", con il generalismo, come fanno (per citare altri due casi curati da PierLuca Santoro per l'EJO) il Guardian e il Times anche alla ricerca di un sostegno per le rispettive versioni cartacee con una strategia, ad oggi, ancora tutta da registrare.
Se invece si vuole fare della propria Impresa Editoriale una missione sociale (opportunamente inquadrata in un ecosistema informativo evidentemente da riformare), bisogna aprire un'ampia riflessione: Si potrebbe cercare di cambiare il linguaggio, provando a rendere interessante anche ciò che è importante (alzando, cioè, soggettività e leggibilità anche per le hard news); oppure, iniziare a pensare di insegnare, non soltanto nelle scuole, la lettura, la comunicazione e il linguaggio digitale per fare, dei Cittadini, dei Lettori consapevoli, parte attiva e non passiva. È forse anche questa la strada per far tornare i Cittadini stessi a cercare notizie sulle testate; pratica, quest'ultima, che, come mostra ancora PierLuca Santoro segnalando il rapporto annuale del Censis e come, con condivisa preoccupazione, puntualizza Massimo Mantellini, è sempre meno diffusa.
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