Le reazioni su Twitter sono state molto esplicite: il tweet di Jared Keller (via), Director of Social Media di Bloomberg News and Bloomberg Businessweek, parla da solo. Le proteste dei lettori hanno portato alla cancellazione dell'articolo (per i curiosi esiste una versione cache).
Concordo con Andrea Iannuzzi quando dice che, "a infastidire i lettori / utenti non è stata tanto la formula in sè dell’advertorial, quanto il contenuto specifico, che parlava di un tema controverso come la chiesa (o setta, secondo un’opinione diffusa) di Scientology". Ho voluto, però, comunque approfondire la questione scrivendo a Jared Keller per chiedergli un punto di vista sicuramente più vicino a quello dei lettori americani del The Atlantic. Questa è stata la risposta: [la reazione dei lettori del The Atlantic] it's because it's a scientology ad. Native advertising only works when it's in line with a media outlet's voice and sensibility: Buzzfeed does it really well for example, because the content is actually something compelling. The fact is, this Scientology is of *no* interest to the Atlantic audience (or their writers), so it looks ugly and out of place. I wrote about this for BW: The Atlantic, the Church of Scientology, and the Perils of Native Advertising." Il problema, quindi, almeno per Jared Keller, sta nell'aver pubblicato un articolo il cui contenuto non è nella linea editoriale del giornale, indipendentemente dal fatto che fosse sponsorizzato. Questo è un dato molto importante.
Completo questa analisi con un paio di tweet appartenenti al thread aperto da Keller in cui mi sono inserito per capire:
@marcodalpozzo Because it was a sponsored post made to look like a real editorial post, complete with fake comments section.
— Eva Holland (@evaholland) Gennaio 17, 2013
@marcodalpozzo I couldn't really care. The church is pathetic and money hungry. That has nothing to do with REAL Scientology.
— Robby Lyon (@LyonRobby) Gennaio 17, 2013
Quello di Eva Holland rimette un pò in discussione le nostre certezze soprattutto se si considera che è un editore e, quindi, presumibilmente, al corrente di certe pratiche oltre che, ovviamente, delle difficoltà che gli editori si trovano davanti quotidianamente. Ma come, Eva, non sai che esistono gli advertorial? Non sai che gli sponsor a volte pagano la pubblicazione di articoli?
Io penso che l'advertorial sia un'ottima soluzione: quanto un brand fa notizia utile all'ecosistema informativo, ben venga una pubblicazione a pagamento. I lettori, poi, hanno (o, almeno, dovrebbero avere) tutti gli strumenti per giudicare, proprio come nel caso The Atlantic.
"Chi produce informazione è alla continua ricerca di un modo per trarre profitti da un mercato nel quale l’utente finale è abituato ad avere la “merce” gratis. E se non si è disposti al pagamento delle notizie, si rischia di trovarsi costretti a leggere, quasi senza saperlo, notizie a pagamento." Così Andrea Iannuzzi conclude una riflessione che mi sia consentito completare.
Chi produce informazione è, per intendersi, l'editore; chi deve essere disposto al pagamento è, invece, il lettore. Ora, non è che l'editore è in crisi perchè il lettore non è disposto a pagare. L'editore è in crisi perchè non crea le condizioni per cui ci sia una qualche intenzione di pagare contenuti attualmente, evidentemente, scadenti. Perfetto sarebbe se le parti in causa acquisissero la consapevolezza che i contenuti di qualità (una certa qualità, s'intende) vanno pagati. Questa consapevolezza porterebbe tali parti a regolarsi: gli uni nella produzione di contenuti di livello, gli altri nella concessione di moneta per poterli leggere. Meglio ancora sarebbe, in effetti, non ragionare in termini di "parti in causa", ma mettendo insieme editori/scrittori e lettori nella categoria di cittadini. Che, in fin dei conti, sono tutti scrittori, lettori e anche clienti.
Immagine Businessweek
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