In questo scenario, che è soltanto uno spicchio dell'ecosistema informativo in cui siamo immersi, sono due, anzi tre, gli attori in gioco: (1) il produttore di contenuti, l'editore (nel caso specifico il Guardian); (2) il piattaformaro (Facebook) e (3) le persone che, attraverso la piattaforma, fruiscono dei contenuti. Se ho bene inteso, la negoziazione di cui parla Gigi Cogo, è quella che avviene tra i primi due, tra produttore e piattaformaro, secondo delle logiche - quelle del profitto - che tagliano completamente fuori dalla scena le persone. Logiche che, quindi, sembrerebbero non curarsi di questioni importanti come: Cosa è meglio per le persone? Come si può instradarle in un percorso di crescita verso la conoscenza (e oltre)?
Luca De Biase riporta che, al Guardian, non andrebbe tanto a genio il meccanismo secondo cui, ad essere valorizzati, siano soltanto i contenuti più popolari (nella filter bubble la conoscenza è un taboo). Una nobile causa, questa, difesa da un editore per gli interessi dei suoi lettori; ma il condizionale usato da De Biase mi fa riflettere: magari al Guardian, semplicemente, non conviene più lasciare il controllo dei propri contenuti a Facebook continuando a tenere attiva un'app che, da qualche mese a questa parte, con un fenomeno che sembra aver interessato anche il Washington Post, ha stufato e infastidito i Facebookeros (per ragioni che, francamente, non capisco: quella della frictionless sharing è o no una pratica che autorizziamo utilizzando l'app? Morozov - via - quando parla di pedinamento di Facebook, secondo me fa del populismo).
Ma non lo so dire.
Non so nemmeno dire se le piattaforme potrebbero reggersi in piedi anche solo con gli UGC. In tema di citizen journalism, d'altra parte, penso: non sono forse gli stessi UGC che fanno notizia? Messa in questi termini (le cose, in effetti, non stanno esattamente così), la parte del leone, la farebbe sicuramente la piattaforma. Anche da un punto di vista economico. E, quindi, il piattaformaro, che interesse potrebbe avere a negoziare?
La mia visione - ristretta al breve termine oltre che e da un background che da ampliare - è che non ci sarà nessun negoziato. Saranno gli editori a dover cedere, a meno di scelte diverse di cui PierLuca Santoro ha più volte disquisito nel suo spazio.
La speranza che ho, invece, è che tali negoziati ci siano, purchè al centro di ogni trattativa venga posto il Cittadino, il lettore (mi piacerebbe, cioè, prevalesse più la logica secondo cui tra i due litiganti il terzo gode che quella del terzo incomodo). Perchè gli UGC saranno pure diventati importanti ma, e qui credo di interpretare parte dell'ampia riflessione di Gigi (che, infatti, parla, più in generale di cloud), è il lavoro giornalistico, funzionale al cammino dei Cittadini/Lettori verso la conoscenza, ad attribuirgli senso e contestualizzarli.
Ma, in realtà, all'editore, quanto interessa questo tipo di valore del lavoro giornalistico?
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PierLuca Santoro offre il suo (professionale) punto di vista sulla questione. Ecco due passi importanti:
- Sulla scelta del Guardian, e di altre testate, di percorrere la strada dei Social Reader (su cui aveva già scritto a suo tempo):
In primis ritengo che in questo modo si vada a replicare l’idea in salsa social dei portali di notizie, non vi è dunque innovazione ma solo camouflage.
[...]La socialità della notizia non è fatta, o quanto meno non è solo, di “like”. Se l’obiettivo fosse un effettivo processo di condivisione di conversazione con le persone senza bisogno di nuove applicazioni sarebbe sufficiente, banalmente, iniziare a rispondere finalmente ai commenti degli utenti all’interno delle pagine già esistenti su Facebook, cosa che a tutt’oggi rappresenta una rarità.
- Sulla scelta del Guardian di abbandonare la strada dei Social Reader:
Una scelta che [...] è di rispetto nei confronti dei lettori, delle persone, che finalmente potranno consapevolmente decidere quello che vogliono condividere e cosa invece no, e che, soprattutto, sposta il tempo speso online all’interno del sito web della testata [...].Decisione coerente che perfettamente si integra con quella di creare delle community d’interesse nel proprio sito o comunque proprietarie che dimostra concretamente la sottile ma fondamentale differenza tra essere online ed essere parte della Rete e che chiarisce cosa sia la distinzione tra una visione strategica ed il procedere per tentativi.
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Riccardo Polesel, che ringrazio per la citazione, fa il punto della situazione. Ecco un passaggio della sua riflessione:
«Il cliente può licenziare tutti nell'azienda, dal presidente in giù, semplicemente spendendo i suoi soldi da un'altra parte» ha detto Sam Walton, fondatore di Wal-Mart (la più grande azienda al mondo per fatturato e dipendenti nel 2010). Questa frase, citata nel mio libro, si può adattare perfettamente al nostro caso: se il lettore/utente va da un'altra parte, può licenziare tutti sia in un Social Network che in una testata giornalistica.
Segnalo anche il lunghissimo resoconto su linkiesta di Paolo Bottazzini, che conclude in questo modo:
L’esperienza condotta su Facebook, oltre alla crescita del numero di lettori, ha lasciato un’istruzione di fondo nel modello da seguire per il futuro: strutturare le notizie in modo da porre la profilazione dei lettori e la conoscenza in tempo reale dei loro interessi sia come fondamento, sia come obiettivo, degli strumenti di erogazione delle news.
1 commento:
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